Storia

               

Montano Antilia – uno scatto degli anni 60

MONTANO ANTILIA (SA):  Le Origini 
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Il nome Montano in origine pare fosse Montana.

In periodo successivo tale nome Montana fu cambiato in Montano e successivamente fu definitivamente chiamato Montano Antilia.

Se è facilmente comprensibile il nome Montano per un paese che sorge a 760 metri sul livello del mare più incerta appare l’origine ed il significato dell’etimologia Antilia. L’ipotesi più probabile fa discendere tale denominazione di Antilia dall’unificazione di due parole greche: ante elios ossia avanti al sole.

Ed infatti Montano Antilia gode di una delle posizioni più belle e di uno dei panorami più gradevoli dell’intero territorio cilentano potendo ammirare, nelle limpide giornate, gli incantevoli golfi di Palinuro da un lato e di Policastro dall’altro fino alla costa calabra.

Sempre con riferimento al termine Antilia si precisa che c’è una seconda corrente di pensiero che sostiene che il termine Antilia sia riferito ad un periodo crudele della sua storia.

Inoltre, l’insufficienza di documentazione, ci impedisce di stabilire con precisione “le origini” di Montano Antilia.

Le leggende e le tradizioni orali fanno risalire la nascita del paese alla dominazione romana sulle colonie della Magna Grecia. Si narra poi, che Montano Antilia fosse ubicato in una zona più a valle distrutta dalle incursioni Saracene.

Tale narrazione è avvalorata da ritrovamenti piuttosto recenti di reperti archeologici nella zona Piano Bombace sita ai margini del fiume Lambro di alcune stele funerarie e di un sarcofago in pietra. La narrazione di cui si diceva ha anche fondamenta per così dire scientifiche che trovano sostanza in una relazione fatta dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali di Salerno dell’anno 1985 dalla quale emerge la di sicura esistenza di una necropoli romana.

L’incubo ed il terrore dei Saraceni, durato sino al XIV sec., facilitarono l’affermazione dei villaggi agricoli interni alla costa cilentana-calabra.

Abatemarco, Massicelle, Montano si formarono, sotto lo stimolo della Chiesa, come villaggi agricoli, atti allo sfruttamento del terreno (casalia).

Nel complesso sistema amministrativo fecero parte dello stato di Cuccaro che, a sua volta, era compreso nella Baronia di Novi. L’agricoltura e la pastorizia acquistarono le caratteristiche franche (dominazione Normanna), alle coltivazioni dell’ulivo, del lino e della vite si affiancarono le colture degli ortaggi, dei cereali, dei legumi e s’intensificarono le produzioni del castagno e dell’allevamento di suini.

I villaggi, considerati semplici proprietà venivano gestiti di conseguenza: il Guiscardo affermò con la fondazione dei monasteri Basiliani il principio politico di assorbire e non distruggere le abitudini e le tradizioni dei popoli conquistati. In questo periodo nacquero gli statuti, che si differenziavano da zona a zona, dovendo rispondere a diverse esigenze. Tali statuti venivano periodicamente approvati dal sovrano.

Le comunità cioè il complesso dei cittadini senza distinzione di ceto, era alla base dell’ordinamento ed aveva la funzione di limitare i diritti e le competenze del feudatario e dello stato. Montano, come pure Abatemarco e Massicelle, sorsero come villaggi agricoli medioevali. Le loro caratteristiche sono in gran parte scomparse ma, ad uno attento osservatore, molte sono ancora evidenti.

Le case terragne, le pagliare e le case di legno non esistono più ma la struttura di base del paese permane: strade strette, case addossate le une alle altre, vicoletti larghi solo quanto basta per far passare un asino carico, la Chiesa al centro del paese stesso, ecc… Gli edifici più importanti furono costruiti tra il XVI sec. e il XIX sec. Dei tre paesi facenti parte del comune (Montano Antilia, Abatemarco e Massicelle), è proprio nel Capoluogo che si rinvengono ancora segni tangibili delle popolazioni che lo hanno abitato.

Infatti a Montano Antilia sono riconoscibili, all’occhio attento, simboli e stemmi riconducibili alle famiglie che ne avevano il dominio.

I simboli e gli stemmi venivano incisi sui portoni affinché il popolo riconoscesse la casata e il suo valore. Infatti a Montano Antilia sono rinvenibili simboli che appartennero ai Pignatelli di Strangoli, ai Pignatelli di Napoli, ai Pitta, ai Monforte e ai Lettieri.

Alcune costruzioni mantengono esteriormente lo stile agricolo del 700 e sono una testimonianza di cultura e di vita, relativa ad una economia agricola. All’esterno si presentano come degli enormi scatoloni; all’interno sono dotati di tutti i “comforts” di una vita legata alla terra e i suoi prodotti.

Lo spazio è ben diviso: al pian terreno bottai e cellai a nord; granai, legnaie, stalle e porcili a sud.

Ai piani superiori cucina, camere da letto, e le cosiddette camere di rappresentanza. Da tenere presente che tutte le costruzioni sono state portate a termine in un lungo lasso di tempo ed hanno subito modifiche ed innovazioni corrispondenti ai tempi e ai bisogni.

Montano ha una caratteristica particolare: è circondato da chiese (ai 4 punti cardinali). Alcune di queste cappelle sono da datare prima della Chiesa madre. Infatti Montano come villaggio agricolo si formò senza la Chiesa. Gli storici classificano questa universitas come villa a nucleo.

Da ricerche effettuate sul testo, “Storia di un feudo del mezzogiorno”, “La Baronia di Novi” (Ebner) si ricavano le seguenti notizie: Montano o Montana, faceva parte dello stato di Cuccaro unitamente alle frazioni Massicelle ed Abatemarco. Gli abitanti del tempo erano costretti a seppellire i propri morti a Cuccaro.

Gli abitanti si rivolsero ai Vescovi di Capaccio ed avanzarono la richiesta di costruire una Chiesa, vista la difficoltà di trasporto delle salme a causa della lontananza. La tanto sospirata autorizzazione avvenne nel 1466, quando Mons. Francesco Conti annunziò agli eletti di Montano nella Abbazia di Pattano, l’avvenuta concessione.

L’esattezza di questa notizia è confermata da un decreto di Mons. Raymonti che richiama la consacrazione della Chiesa avvenuta il 25 luglio 1493; “Ecclesia est consacrata de anno 1493 die 25 mensis iulie pront apparet ex instrumentum antiquissimo”.

Ciò trova conferma anche in un inventario della Chiesa di S. Pietro di Cuccaro, dal quale si rivela che nel 1478 Corrado Malleo, Vicario generale della diocesi di Capaccio, staccò con un decreto, ratificandola bolla del 1546 da Paolo III, Montano da Cuccaro e Massicelle. Precedentemente esisteva una cappella ubicata al centro dell’abitato dedicata a S. Nicola. Lì attualmente vi è la piazza S. Nicola.

Nei lavori di restauro, della piazza, sono stati rivenuti resti di scheletri umani di tempi molti antichi. La “pianta” di Montano può essere questa per quanto riguarda le posizioni delle cappelle, Nord: Cappella in onore di S. Anna; Ovest: Chiesa Madre in onore della Santissima Annunziata; Est: Chiesetta in San Sebastiano; Sud: Cappella in onore di S. Antonio, Cappella in Onore della Madonna di Loreto.

La Scala Santa per la sua struttura (nord-sud) è da considerarsi a sé stante. Il patrono di Montano è S. Sebastiano, (come Protettore e compatrono è S. Montano). A S. Sebastiano è dedicata una Chiesetta, risalente al 1500, molto semplice, tipico esempio di una architettura agricola. Anche se ha subito, nel tempo, continui lavori, ha conservato nella struttura e nell’esteriorità lo stesso aspetto.

La tradizione orale ricorda che questa Chiesa è stata costruita in onore del Santo, in quanto, Montano colpito dalla peste, fu salvato per intercessione di questo Santo. La Chiesa Madre della SS Annunziata è stata costruita sulla struttura di un vecchio convento, caduto in crisi verso il 1300.

Lo storico Giovanni Passarelli di Napoli 1939/2009, nel suo libro “Tesori sotto l’intonaco – Storia di una chiesa e del suo restauro”, la descrive così – Vista dall’esterno la costruzione non è bella né importante -.

La struttura massiccia conserva l’essenzialità delle costruzioni agricole, non presentando alcun elemento architettonico di rilievo.

Il muro a nord (a sinistra) è lo stesso del vecchio convento, lo provano i numerosi residui di affreschi del XV sec., rovinati dalla sovrapposizione di altri e la messa in opera della corrente elettrica.

Il “corridoio” creatosi tra i pilastri e il muro a sud, amplia il transetto e l’accesso ai locali che oggi sono adibiti a sagrestia. Si può notare la differenza di stili tra i pilastri, le cappelle votive e le modifiche apportate sulla vecchia costruzione. Dalla pianta si rileva che dove oggi c’è un altare, con l’ampliamento del transetto, in origine doveva esserci un’apertura che dava accesso alla loggia del portico”.

Riportiamo uno stralcio della stima eseguita dal capitano don Antonio Cafaro, “ingegnero”, di sua Maestà nel 1660, per un apprezzo dello stato di Novi per ordine del consigliere don Diego Moles, presidente della Regia Camera. “Il casale di Montano tiene la parrocchia chiesa sotto il titolo della SS Annunziata all’entrare di esso, di buona capacità coperta a tetto con il soffitto e suo altare maggiore sopra il quale sta altro choro coverto con cupola e custodia del Santissimo, dietro del quale sta l’altro choro da una parte sono le cappelle sfondate e dall’altra l’altari solamente, dietro il choro il campanile, si officia da un arciprete e da tre altri sacerdoti”.

Abbiamo voluto riportare questo pezzo della stima fatta da Cafaro per dare una data precisa e per evidenziare che la chiesa della SS Annunziata era già realizzata e che gli affreschi sono da datare dopo il 1660. Nei recenti lavori di restauro ci sono state altre sorprese. Il muro a nord – quello originale del vecchio convento – era tutto affrescato. Nella cupola furono effigiate l’Annunziata, S Montano, S. Michele, e S. Irene con al centro la colomba dello Spirito Santo. Nel locale del vecchio convento, adibito a sacrestia, era affrescata la Natività tema inerente all’annunciazione.

I dipinti sono precedenti, del XV sec., forse di Francesco Pagano. Sulla porta dell’atrio sono tre quadri, oggi completamente rovinati, che rappresentano; la cacciata dei mercanti dal tempio, il battesimo di Gesù S. Vincenzo Ferrer. Le cappelle “Gentilizie” (sul lato destro), ognuna appartenente a una famiglia nobile, conservano ancora sull’arcata gli stemmi di appartenenza.

Altro monumento da visitare è la Scala Santa, fatta costruire in un luogo dove sostavano le “compagnie” che andavano in pellegrinaggio a piedi al monte Sacro (Gelbison) di Novi.

Simeone Nicola Monforte, da pellegrino con candela di cera accesa come guida, salì sul Calvario, ricco tesoro di indulgenze.

Al marchese Antonio Cammarano fu concesso dallo Stato Pontificio il privilegio di erigere una Scala Santa per adempiere ad un voto.

La piccola cappella è stata costruita sul modello della Scala Santa di Roma, con una scalinata formata da ventotto scalini.

A coloro che visitano questa chiesetta, in special modo nei Venerdì di Quaresima e il Venerdì Santo, sono concesse le stesse indulgenze dispensate a coloro che visitano la Scala Santa di Roma. La costruzione è tipica del ‘600.

Fino a pochi anni fa sulla porta della cappella si leggeva chiaramente: sull’anta sinistra C.D. che significano Cammarano Donavit (tipica espressione del ‘600), e sulla destra A.D. MDCC.XX.VI (Anno Domini 1726). Oggi non è possibile più leggere tutto questo dato che la porta è stata sostituita.

 

Sul frontespizio della porta, per ricordare la visita dell’Abate Monforte, c’è una lapide su cui è scritto in latino:

“Sistite Naturales

Siste, viator, hic ad preces in nomine Deo

Simeoni Nicolai Abate Monforte è duce

Auretusa cerad calvar ascensus indulgens

Thesauro ditatus regioque permissus munit

Aere prope fuit egrege costructus

R.S.A. MDCCLXXV”

Fermatevi esseri creati

Viandante, fermati qui a pregare nel nome di Dio

l’Abate costruito, con denaro proprio.

Ricordo Santo Anno 1775

Nota: in detto anno fu istituita La Scala Santa (Via Crucis) inaugurata dal citato Abate come risulta dall'epigrafe pietrosa (Anno Santo) con carattere più festoso che penitenziale. Sotto il Pontificato del Santo Papa Re Pio VI.

Montano Antica

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tratto da: http://www.montanoantilia.gov.it
MOTI CILENTANI 1828 – MONTANO ANTILIA, SALERNO
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DI ANGELO MASTRANDREA        2012

La prima volta che Montano Antilia finì su un giornale il calendario segnava il 5 luglio 1828. Non avrà grandi motivi per comparirvi nemmeno in seguito, il piccolo comune del basso Cilento che all’epoca dei fatti aveva lo stesso numero di abitanti di oggi: poco più di duemila allora, altrettanti nel momento in cui stiamo scrivendo. In quell’estate del 1828, però, Montano Antilia rischiò seriamente di passare alla storia, se solo gli avvenimenti avessero preso una piega diversa. Si potrà comprendere perciò con quale interesse, in un luogo in cui i lutti, le nascite e persino il saldo tra emigranti che vanno e coloro che tornano si compensano così perfettamente, i cittadini abbiano ascoltato dalla bocca di un esperto di faccende cilentane come Giuseppe Galzerano, qualche giorno fa, rievocare nomi e cognomi dei protagonisti degli avvenimenti del 1828, ciascuno sperando di ritrovarvi un suo antenato o un gesto che riconducesse alla propria famiglia.

Nelle “notizie interne” del Giornale del Regno delle due Sicilie del 5 luglio di quell’anno un anonimo cronista di regime scriveva: “Un’altra importante operazione è stata pure eseguita nei giorni ultimi di luglio,

egualmente dovuta alle misure energiche dell’Ispettor Comandante la Gendarmeria Maresciallo del Carretto, ed a quella celerità di operare che gli fa tanto onore. Erasi da lui risaputo che molti oggetti preziosi, involati nel saccheggiamento di San Giovanni a Piro dalla rapace masnada di rivoltosi, che sulla fine di giugno recò tante molestie e danni a parte del Distretto di Vallo, giacevansi occultati presso un tal D. Pietro Bianchi del comune di Montano, uno dei più aderenti alla Masnada medesima; e quindi in conseguenza degli espediti provvedimenti del lodato Maresciallo, preso ed arrestato D. Pietro, si venne a conoscere che colla costui intelligenza e cooperazione gli oggetti stessi racchiusi entro un barile eransi da que’ facinorosi nel loro passaggio per Montano sepolti nel terreno d’un giardino di D. Vincenzo Galietti, degno nipote di esso D. Pietro. Infatti fu ivi dissotterrato quel barile, ed in esso si rinvennero calici, paténe, ed altri sacri vasi ch’erano stati rubati da que’ sacrileghi con altri argenti ossiano posate, calamaj, bugìe, caffettiere ed altre simili cose”. Nulla scriveva, l’anonimo cronista di regime, di tutto quello che era accaduto a contorno dell’episodio raccontato, e che ad attento occhio giornalistico avrebbe dovuto costituire evento ben più memorabile delle posate saccheggiate da una banda di presunti malfattori e interrate nel giardino di una persona del luogo.

Il cippo dopo il restauro

 Il cippo restaurato

Oggi bisogna scarpinare da Montano fin su a piano Guglielmo, un altopiano da cui si parte per dare la scalata al monte Gelbison, per provare a respirare l’atmosfera che si creò quassù la notte del 27 giugno del 1828, otto giorni prima dell’articolo che comparirà sul Giornale del Regno delle Due Sicilie. Due secoli dopo è stato finalmente rimesso al suo posto, grazie all’impegno di un’associazione locale e al decisivo contributo economico del medico condotto, il cippo che, in occasione del primo centenario di quelle giornate, nel 1929 in pieno fascismo, fu sistemato perché i rari viandanti fossero messi a conoscenza di cosa era accaduto da quelle parti cent’anni prima. Vi si può leggere: “Nell’ora vigilata dagli eroi la notte del 27 giugno 1828 questo punto segnò il primo passo della rivolta per la libertà”.

Il Proclama

Ma cosa accadde quella notte tra i monti del Cilento? Per l’occasione era sbarcato a Marina di Camerota un palermitano, Arcangelo Dagnino. L’8 giugno era arrivato anche Antonio Galotti, un pugliese che si era sposato nel Cilento e che dopo la morte della moglie era rimasto in quelle terre a seminare la buona pianta dell’insurrezione. Galotti era stato convocato a Montano grazie ai contatti con il canonico Antonio Maria De Luca, punto di riferimento del ramo cilentano dei Filadelfi, società segreta nata in Francia che si proponeva di esportare i principi della libertà, dell’eguaglianza e della fratellanza. Si presentarono anche i tre, pluriricercati, fratelli Capozzoli, alla testa di una banda accusata di vari misfatti tra cui l’uccisione del sindaco di Monteforte Cilento, sospettato da loro di essersi impadronito della cassa dell’organizzazione che doveva servire per assistere i familiari dei detenuti e per gli spostamenti.

Non c’era Pietro Bianchi, padrone di casa in quanto la riunione si svolgeva sui terreni di famiglia, e al suo posto faceva bella mostra di sé sua moglie Alessandrina Tambasco, all’epoca trentaduenne, bellissima (così la descriverà Domenico Capozzoli dal carcere nel 1831). L’accompagnavano sua madre, una donna originaria della Basilicata, e le due sorelle Nicolina e Michelina. C’era infine gente arrivata da tutto il Cilento e perfino un nevaiolo che offrì dei magnifici sorbetti con la neve raccolta in montagna e conservata in una fossa per non farla sciogliere.

Dagnino aveva portato con sé un calamaio e, al termine del consesso, vergò un Proclama in cui si chiedeva l’introduzione della Costituzione francese e la riduzione del prezzo del sale, bene di prima necessità per conservare gli alimenti in tempi in cui il frigorifero era ben lungi dall’essere ideato. Non che fosse filato tutto liscio, come in ogni assemblea pre-rivoluzionaria che si riguardi. Alla prima stesura Domenico Capozzoli e Giuseppe Ferrara, un rivoltoso discendente da una famiglia di comunisti, si misero di traverso perché il Proclama appariva loro troppo liberale e non era presente la parola “popolo”. Ci fu anche una discussione sul che fare nel caso l’insurrezione fosse andata a buon fine, e alcuni visionari si sbilanciarono affermando che, in caso di vittoria, la monarchia sarebbe stata abolita. Fu così che da Montano Antilia quella notte fu lanciato l’attacco al cuore dello Stato borbonico.

A dire la verità, non mancò chi ebbe da obiettare sull’opportunità della rivolta contro il regime. Lo stesso Ferrara nutriva qualche perplessità, e forse non aveva tutti i torti, perché si era nel periodo della mietitura e i contadini erano tutti al lavoro nei campi, molti addirittura lontano dal paese. Chi sarebbe insorto se non avessero trovato nessuno lungo la loro marcia? Non saranno gli unici nella storia, da queste parti, a pensare la rivoluzione in giugno, quando la natura si risveglia dal letargo invernale e con essa gli uomini e le loro passioni: Carlo Pisacane, senza far tesoro” “della lezione di trent’anni prima, sarà ucciso il 2 luglio del 1857 a Sanza dalla Guardia urbana Sabino Laveglia mentre i contadini erano a mietere il grano nelle Puglie e le donne in chiesa per la messa patronale.

Anche un altro partecipante all’assemblea notturna, Nicola Gammarano, sostenne che non era il caso di promuovere una rivolta, ma fu contestato da Galotti e dallo stesso Ferrara, che nutriva sì dei dubbi ma sulla tempistica e non sulla necessità dell’insurrezione armata.

La lapide davanti la casa del sacerdote Giovanni De Luca nipote del Canonico Antonio De Luca di Celle Bulgheria

La marcia degli insorti

Alla fine, trovato l’accordo sul testo, i cospiratori decisero di andare a leggere il Proclama in pubblico a Palinuro, sul mare, e così l’avventura dei rivoltosi cilentani poté finalmente avere inizio. Quando ripassarono per Montano Antilia, la sera del 30, trovarono una piacevole sorpresa: dalle finestre di diverse case facevano bella mostra le bandiere bianche degli insorti. Analoga accoglienza fu riservata loro a Licusati, Centola, Marina di Camerota. Non così a San Giovanni a Piro, dove la popolazione non si unì, anzi fece resistenza e alcune abitazioni, tra cui quella del sindaco, vennero saccheggiate. è a questo episodio che fa riferimento il Giornale delle Due Sicilie nell’articolo del 5 luglio, trattando i rivoltosi anti-borbonici come una qualsiasi banda di malfattori.

Quello che il giornale non racconta è cosa fosse avvenuto nel frattempo e cos’altro si stesse preparando. Per evitare di ripetere la disavventura di San Giovanni a Piro, i rivoltosi avevano fatto precedere l’arrivo nel comune di Bosco da una lettera indirizzata al sindaco. Scrivevano i rivoltosi, che si firmavano “i nazionali”: “Sig. Sindaco, a vista della presente, fate subito pronte cinquecento razioni per cinquecento nazionali e siete avvertito di non fare appartare persona alcuna dal paese, assicurandogli sotto la parola di veri spartani per la loro salvezza. Avvicinatevi però voi con i galantuomini ed il parroco a ricevere la bandiera della Costituzione di Francia, in caso poi che vi negate, vi succederà sicuramente come in questo momento è accaduto al vicino indegno paese di S. Giovanni”. Questa volta non fu necessario ricorrere alla forza. I cittadini li accolsero sventolando rami di ulivo e il pranzo ai cinquecento ribelli che stavano attraversando il Cilento fu offerto con grande entusiasmo. I malcapitati cittadini di Borgo pagheranno però molto cara quell’adesione così entusiastica alla “rivolta dei Filadelfi”. La repressione, guidata da un ex liberale passato armi e bagagli con i Borboni, il Comandante Francesco Saverio del Carretto, sarà durissima.

Il 7 luglio 1828, due giorni dopo l’articolo che abbiamo preso come punto di riferimento temporale, Bosco fu dato alle fiamme e completamente distrutto, e i terreni furono cosparsi di sale per far sì che non fossero più fertili per le popolazioni locali. Il 28 luglio re Ferdinando II firmò la soppressione definitiva del Comune. Il Regio decreto all’articolo 2 recitava: “Né essi né altri potranno ricostruire mai più le abitazioni che formavano l’aggregato di quel Comune, né in quel sito ove esisteva, né in altro dell’antico suo tenimento”. Centonovantasei maioliche dipinte da Josè Ortega, pittore amico di Picasso ed esule antifranchista trasferitosi da queste parti perché, diceva, «sto bene con voi, perché qui ho trovato un’angoscia ed una miseria che sono quelle della mia gente, perché i colori sono quelli della mia terra, perché la pelle dei braccianti è scura e secca, come quella dei contadini spagnoli», ricordano oggi la distruzione all’ingresso del paese. Chi pagò più duramente per la rivolta fallita fu la famiglia Bianchi, che aveva ospitato a Piano Guglielmo la riunione in cui fu decisa l’insurrezione: la bellissima Alessandrina Tambasco fu condannata a dieci anni di “ferri”, vale a dire di carcere duro, che sconterà tutti senza riduzioni di pena, perché nella notte della rivolta aveva cucito delle coccarde bianche che gli insorti avevano indossato, un fratello sarà fucilato, la madre e le sorelle anch’esse incarcerate. Il marito Pietro Bianchi morirà di stenti in galera. I tre fratelli Capozzoli fuggirono in Francia prima, in Corsica poi. Tornati in Cilento, saranno arrestati un anno dopo, assassinati e le loro teste, conficcate in un palo, portate in giro tra i paesi del Cilento perché la loro visione servisse da monito per chi avesse intenzione di ribellarsi ancora. In tutti i paesi che i vincitori borbonici attraversarono trionfanti la popolazione fu costretta a inginocchiarsi al loro passaggio. A Montano Antilia non si inginocchiò nessuno. Fu questa la “rivoluzione insubordinata” di Montano Antilia che il poeta-scrittore lucano Rocco Scotellaro avrebbe voluto raccontare se la morte non lo avesse colto ad appena 30 anni, il 15 dicembre del 1953.

 

 

 

La Rivolta del Cilento del 1828

un documento del 1933 dall’Archivio Storico per la Provincia di Salerno

La Rivolta del Cilento del 1828

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