Il Frantoio

Frantoio – Nome generico di ogni strumento usato per la frantumazione, anche il luogo dove si esegue tale operazione… alcuni tipi usati per la lavorazione delle olive… Un estratto dalla nota enciclopedia Treccani per definire sinteticamente il frantoio, per noi cilentani lu trappitu.
Sarebbe presuntuoso pensare di trattare in maniera scientifica e tecnologica questo argomento, oltre che inutile, tanti esperti in materia con specifiche competenze vi si sono dedicati. L’obiettivo è narrare il luogo e il processo di lavorazione nel contesto del nostro paese degli anni passati, quando la produzione dell’olio rappresentava un tassello fondamentale per l’economia locale e il frantoio costituiva un indispensabile elemento per il processo di trasformazione.
Tre amici al bar
Qualche tempo fa, una domenica mattina con un piacevole clima settembrino, attraversando la piazzetta del paese scorgo due amici davanti al bar seduti allo stesso tavolino, li saluto e non mi faccio ripetere l’invito a sedermi con loro per gustare un buon caffè, dopodiché non posso fare a meno di confessargli che non passavo di lì per caso ma volutamente dopo che qualcuno mi aveva informato della loro presenza. Un malcelato pizzico di stupore affiora sui loro volti quando dico:
“volevo chiedervi una cosa”.
Al che uno dei due scherzosamente risponde:
“tutto, tranne che soldi”
e ridendo alla mia controbattuta
“non vi preoccupate, ne ho tanti a casa che non saprei dove metterli”
s’illuminano quando gli spiego che entrambi sarebbero stati preziosi per fornirmi le loro testimonianze riguardo i due frantoi esistiti a Montano.
I frantoiani
Vincenzo e Domenico mi confermano di aver lavorato nei due frantoi di Montano, anche se uno per i Bianchi e l’altro per i Baroni, i proprietari dai quali derivava l’appellativo: lu trappitu ri li Bianchi e lu trappitu ri li Baruni. Lavoro stagionale da loro svolto nei mesi da novembre/dicembre ad aprile/maggio (secondo le annate) dagli anni 60 fino al 1995.
Con un pizzico di giocosa rivalità e un poco di nostalgia cominciano a raccontare non solo la loro esperienza vissuta, ma anche quanto loro tramandato.
Sin dai tempi più remoti è sempre esistita una struttura (non più funzionante, ma ancora presente poco distante dal paese in una zona chiamata appunto lu mulinieddu) alimentata dall’acqua di un fiume che fungeva sia da mulino per il grano che da frantoio per le olive. Poi nacquero i due frantoi citati sopra, azionati prima dalla forza animale e poi da una forza motrice all’arrivo dell’elettricità.
Giro-giro tondo
Un asino faceva ruotare due grosse ruote di pietra posizionate all’interno di un basamento girandoci attorno, frangendo così le olive e ottenendo una pasta omogenea (composta da bucce, polpa e noccioli) poi sottoposta a torchiatura. Il processo non era ancora terminato, poiché nell’olio estratto vi erano anche altri elementi residui del composto, si doveva quindi procedere alla successiva fase di separazione. Nei recipienti dove era confluito l’olio si aggiungeva dell’acqua calda in modo che i residui andassero sul fondo e l’olio, affiorato in superficie, venisse sapientemente recuperato da mani esperte con un particolare mestolo chiamato “cuoppo”.
Automatizzazione
L’inventore della corrente elettrica avrà sicuramente ricevuto l’eterna gratitudine dall’asino e la benedizione dei lavoranti nei frantoi (li trappitari), i quali apprezzarono molto gli enormi benefici derivati dall’automatizzazione del processo.
Il criterio di frangitura rimase pressoché invariato: non più con il movimento dei meccanismi generato manualmente, ma azionato dalla semplice pressione di un bottone. La pasta ottenuta con notevole risparmio di tempo ed energie veniva dosata in uno strato di circa tre centimetri – dapprima a mano e successivamente con un dosatore automatico – sui fiscoli (diaframmi circolari in fibra vegetale con un foro al centro). Questi venivano impilati su un carrello con un albero centrale, intervallati a tre a tre da un disco vuoto in acciaio. La pila così composta veniva posizionata sotto una pressa, la quale provvedeva automaticamente alla pressatura facendo confluire l’olio nelle vasche di separazione: la torchiatura manuale era ormai superata!
Processo di separazione
Anche per la fase di separazione il criterio era rimasto più o meno lo stesso, solo che il fatidico “cuoppo” non serviva più. Nelle vasche di separazione oltre all’olio c’era sempre l’acqua calda, ma un sistema del tutto automatico provvedeva a separarli pescando l’olio depurato che galleggiava, convogliandolo poi nei contenitori. L’acqua, elemento ancora indispensabile, si scaldava in una grossa caldaia posta sopra ad un camino.
La sansa
Terminata la fase di pressatura, i fiscoli impilati si scaricavano e si pulivano (battendoli con un bastone) dai residui della pasta diventata oramai uno strato abbastanza solido per effetto della compressione: questa era la sansa o per capirci “lu nnuzzu”. La sansa, ridotta in frantumi, veniva utilizzata per accendere e alimentare il fuoco o anche per concimare i campi, fino a quando nacquero i sansifici dove macchinari molto più potenti la pressavano di nuovo ricavandone ancora dell’olio, magari destinato all’uso industriale.
La raccolta delle olive
La raccolta era lunga e laboriosa. Si cominciava nei mesi precedenti a pulire (arrasulà) lo spazio sotto la grossa pianta dove le olive sarebbero spontaneamente cadute una volta maturate, per poi raccoglierle una ad una (non esistendo ancora le reti utilizzate oggi) fino a raggiungere la quantità sufficiente per la molitura (almeno una “macina”).
Le regole per la molitura
In un contesto culturale, generalmente modesto, ma con sani principi morali e comportamentali, non c’era neanche bisogno di avere un regolamento vero e proprio, era più che sufficiente il codice etico tramandato dalle consuetudini. Queste erano le principali regole da rispettare: le olive per la molitura dovevano essere epurate dal fogliame e altri corpi estranei, la quantità minima era di almeno 8 tomoli (1 tomolo circa 45 Kg) per una “macina”, si doveva prenotare il giorno per la lavorazione, un decimo dell’olio ricavato e la sansa prodotta era il prezzo dell’operazione, ognuno infine doveva portare un po’ di legna per alimentare il camino.
Il camino
Recarsi al frantoio per la molitura e portarsi a casa quel ben di Dio dopo tanta fatica era già di per sé gratificante, ma con il freddo che ti entrava nelle ossa rilassarsi al tepore del fuoco sempre vivo di quel camino – e con in più il profumo intenso dell’olio appena fatto – era estasiante, ma l’apice si raggiungeva nel gustare una fetta di pane abbrustolita su quell’ardente brace e condita con l’olio ancora caldo.
La fine di un’epoca
La mole di lavoro era consistente, tant’è vero che entrambi i frantoi erano organizzati per almeno due turni giornalieri. La rivalità tra loro non esisteva grazie anche alle persone che, quasi per un senso di gratitudine verso chi forniva loro un servizio essenziale, si recavano sia nell’uno sia nell’altro alternativamente, ma il 1995 vide la fine di un’epoca per i due frantoi quando chiusero i battenti. Le leggi molto più stringenti riguardo le nuove norme sull’igiene e sulla sicurezza imponevano un adeguamento dai costi notevoli, considerando poi l’interesse dei giovani sempre più scarso per le coltivazioni e la nascita di moderni oleifici, la chiusura (sofferta!) rimase la soluzione più naturale.
La piacevole chiacchierata con Vincenzo e Domenico continua, ricordando anche qualche aspetto meno tecnico o organizzativo.
L’ammasso
Nel periodo del fascismo, antecedente la seconda guerra mondiale, nel contesto di una politica autarchica vigeva l’obbligo dell’ammasso. Il regime stabiliva la percentuale d’olio necessaria alla sopravvivenza della famiglia produttrice e il resto da destinare all’ammasso (un obbligatorio contributo “volontario” allo Stato). Un addetto era sempre presente alla lavorazione per controllare che l’esigua spettanza fosse tassativamente rispettata, spesso però questa misera quantità non era sufficiente per la famiglia, tanto che si era costretti ad ingegnarsi a fare l’olio in casa. Le olive messe in un grosso mortaio in pietra si frangevano con un pestello, la pasta prodotta veniva pressata con le mani o con altre rudimentali attrezzature e, infine, l’olio veniva separato dai residui con il sistema dell’acqua calda.
L’olio del pezzente
Uno dei due amici racconta un episodio capitato a lui mentre lavorava. Un giorno si trovò di fronte un forestiero, uno scaltro venditore-compratore ambulante che spesso veniva in paese a vendere degli oggetti in platica (materiale quasi sconosciuto all’epoca) o a barattarli con oggetti e mobili vecchi (magari di inestimabile valore). L’ambulante chiese all’amico se avesse “l’olio del pezzente”, ma all’espressione meravigliata del nostro “trappitaro” disse:
“Non sapete cos’è l’olio del pezzente? È l’olio che rimane nelle vaschette di separazione” e all’osservazione del lavorante:
“Ma con gli automatismi esistenti olio nelle vaschette di separazione non ne rimane!”.
Il venditore furbo provò a ribattere:
“A tutto si può rimediare, vi spiego come! Togliete uno o due dischetti da questo meccanismo e l’olio non sarà completamente pescato, così potrete recuperarlo a vostro vantaggio”.
Questo sarebbe stato l’olio del pezzente! L’amico narratore – però – gentilmente lo invitò ad uscire dicendo:
La risaputa integrità morale dell’ex lavorante non lascia dubbi sul fatto che tale pratica fraudolenta non fu mai attuata.
I moderni oleifici
La lavorazione nei moderni impianti oltre ad essere del tutto automatica, oggi è anche rivoluzionata. Le olive, scaricate in una vasca, magicamente scompaiono per poi ricomparire dal lato opposto sotto forma di olio. Le stesse sono prima automaticamente epurate da eventuali residui, poi lavate, asciugate e convogliate nelle camere per la lavorazione senza l’utilizzo dell’acqua calda per la separazione. Questo insieme di operazioni è definito “lavorazione a freddo”.
C’è chi si esprime a favore di questo nuovo metodo di lavorazione e chi no, chi avrà ragione? La lavorazione a freddo innegabilmente avrà i suoi vantaggi, ma di sicuro non potrà far vivere quell’atmosfera piacevolmente riscaldata dal camino e dal calore umano delle persone.
Un grazie di cuore ai due amici Vincenzo e Domenico
Grazie per questo articolo. Anche se non hai menzionato specificamente mio nonno, Agostino Lettieri, la mia comprensione è che anche dagli Stati Uniti, ha supervisionato la raccolta delle olive sulla nostra terra fino alla sua morte nel 1968. Ha anche prodotto olio e lo ha venduto. Ho visto quegli alberi nel 1958 da bambino e non li dimenticherò mai. Le loro radici sono le mie radici. Ho cercato di acquisire la terra. Io e mio marito americano volevamo sviluppare l’attività a beneficio di tutti, ma non ci sono riuscito.
Grazie a lei per il commento. Mi dispiace non aver potuto citare il suo nonno, ma non ho avuto elementi per poterlo fare. Mi sono limitato a riportare solo l’appellativo dato ai due frantoi esistenti a Montano in quel periodo. Mi hanno raccontato dei Lettieri come proprietari del frantoio dei “Baroni”, ma è tutto quello che so. Se lei avesse delle notizie precise, documenti, foto o altro dove poter ricavare delle testimonianze, mi farebbe molto piacere riceverle (postmaster@montanoantica.it). La ringrazio comunque per il suo intervento e le porgo cordiali saluti.