Il caso

Il caso
Detto così sembra quasi che si voglia parlare di una serie tv oppure del film con Anthony Hopkins e Ryan Gosling, invece non c’è assolutamente alcun nesso con l’argomento cardine del discorso: il formaggio, definito con il termine caso dai nostri nonni, nel dialetto Cilentino.
Origini
Si pensa che l’origine di questo alimento risalga circa al 1600 a. C. quando un mercante arabo, nell’attraversare il deserto, aveva portato con sé del latte in una bisaccia ricavata dallo stomaco di una pecora, ma quando cercò di dissetarsi notò che il latte si era solidificato diventando il futuro formaggio. Furono gli enzimi residui nella bisaccia, il caldo e il movimento a dare origine a questa metamorfosi, secondo quanto si narra (ho provato invano a contattare questo personaggio arabo, ma non ci sono riuscito forse per l’incomunicabilità tra le diverse lingue).
Come si faceva
Quello che posso descrivere è il ricordo del modo “casereccio” di fare il formaggio nel nostro paese, quando da piccolo osservavo con interesse chi si cimentava in quest’operazione casearia.

La rottura della cagliata
Come raccontato già qualche altra volta, nei nostri paesi del Cilento, la pastorizia era una delle principali attività, ma anche chi non viveva principalmente di questo era solito possedere qualche capretta, qualche pecora o un paio di mucche, in modo da produrre il latte necessario per il fabbisogno della famiglia e perché no, fare anche qualche “pezza ri caso”.
Raccolto il latte in un contenitore (solitamente di rame) veniva messo sul fuoco a riscaldare moderatamente e dopo averlo tolto vi si aggiungeva un pizzico di sale e la quantità di caglio (sapientemente dosata dal massaio o dalla massaia). Si lasciava riposare per circa un’ora, fino a quando il latte si era rappreso formando la cagliata, questa veniva tagliata con una grossa paletta di legno e ridotta in minuscoli e omogenei pezzetti, dopodiché veniva raccolta con le mani e leggermente pressata nel “custignu” (un contenitore di canne o vimini intrecciati a forma cilindrica) dal quale scolava il siero in eccesso e la cagliata prendeva forma (da qui il nome formaggio).
La ricotta
A questo punto si può pensare che il processo fosse terminato, invece no. Il liquido dal quale si era prelevata la cagliata (il siero) veniva rimesso sul fuoco a riscaldare di nuovo, e dopo aver aggiunto latte fresco, come per incanto sulla superficie pian piano affiorava un’altra prelibatezza: la ricotta (nome derivato dalla ricottura della cagliata). Con una schiumarola veniva delicatamente raccolta e messa nella “fusceddda” (contenitore simile a quello del formaggio, ma di forma più alta a tronco di cono).
La stagionatura
Dopo qualche ora il formaggio si rigirava, lasciandolo ancora nel contenitore a sgocciolare e prendere forma anche dal lato opposto, mentre la ricotta si lasciava sempre nello stesso modo. Nei giorni seguenti si procedeva alla salatura e a riporlo su una grata di canne in un posto ben ventilato per la stagionatura, avendo cura di rigirarlo ancora di tanto in tanto. La ricotta si consumava fresca o si utilizzava per tante gustose pietanze sia dolce sia salate, come i prelibati “cauzuncielli” (ravioli), oppure anch’essa salata e messa a maturare per poi gustarla stagionata o grattugiata sui maccheroni a pari del formaggio.
Lu pilusu
L’interesse di noi ragazzini ad assistere al procedimento non era del tutto disinteressato o spinto da mera curiosità, ma si aspettava il consueto rituale del “pilusu”. I residui della cagliata volutamente lasciati nel siero per poi essere raccolti, compattati con le mani e donati a noi “assistenti alla produzione”, inoltre l’ardito scopo era quello di raccogliere e mangiare direttamente dal paiolo, i residui di ricotta (anch’essi volutamente rimasti) o addirittura bere un poco di quel siero.
È difficile esprimere ciò che si provava nell’assaporare quelle cose semplici ma gustose, forse perché gli anelli della catena di produzione alimentare erano molto meno saldi e concatenati di come lo sono oggi.
Quello che non esito ad ammettere è che ogni qualvolta si faceva il formaggio ero sempre presente, forse per “caso”.
Un simpatico aneddoto spesso raccontato in paese:
Il padre dice al figlio (un tantino distratto)
e il figlio:
“è nuvulo e feti ri caso”
aprendo l’anta della credenza nella quale era conservato il formaggio, anziché la finestra.